Depressione giovanile: cos’è e cosa fare per prevenirla
La depressione è una delle psicopatologie più sottovalutate. Per curarla serve l’aiuto di un esperto, ma anche chi non ne soffre può fare qualcosa per migliorare l’ambiente vitale di chi ne è affetto. Ecco come
In un articolo di qualche settimana fa sulla crescente solitudine degli italiani, abbiamo evidenziato come l’uso di antidepressivi in Italia stia aumentando in modo preoccupante. Oggi parleremo in modo specifico della depressione.
Copertina: Foto di PDPics da Pixabay
La depressione è un disturbo dell’umore caratterizzato da una serie di sintomi che compromettono seriamente il funzionamento vitale di chi ne è afflitto. Può essere scatenata da un mix di predisposizioni personali (anche genetiche), situazioni ambientali e/o eventi traumatici. I sintomi più comuni sono:
- Umore nero
- senso persistente di agitazione o stanchezza
- disturbi del sonno
- aumento o diminuzione dell’appetito
- sensi di colpa continui e immotivati
- disperazione persistente
- apatia e perdita d’interesse verso attività prima considerate soddisfacenti
- sensazione di essere rallentati
- difficoltà a concentrarsi e a ricordare
e in molti più casi di quanto sembri, pensieri suicidi.
Perché è necessario smettere di considerarla semplice tristezza o pigrizia? La risposta è semplice e inquietante: è la malattia del secolo.
Sono 5 milioni gli italiani che soffrono di depressione. Di questi, 800.000 sono giovani di età compresa tra i 20 e i 30 anni. I sintomi possono cominciare a comparire già in età adolescenziale: stando ai dati trasmessi dalla Società Italiana di Farmacia Ospedaliera, nel 2014 ci sono stati 9.924 ricoveri di adolescenti nella fascia 14-18 anni. La media è di 27 ricoveri al giorno. Il suicidio è riconosciuto dall’Oms come la seconda causa di morte giovanile. Di fronte a questi numeri, il fatto che secondo i dati dati Istat le percentuali italiane siano inferiori rispetto non è affatto consolante.
Il consumo di antidepressivi è in costante aumento, ma quei dati sono solo la punta dell’iceberg. A causa della continua banalizzazione della depressione, i giovani non sempre capiscono di avere un problema serio. Questo può portarli a non curarsi affatto, a rischio di cronicizzare la malattia. Altri, come riportato da Sabrina Molinaro, prendono di nascosto gli antidepressivi ” di base” che il medico ha prescritto a parenti più anziani, il che li porta spesso ad abusarne. Molti, infine, si rifugiano nell’abuso di droghe e alcolici, che esercitano una potente attrattiva su chi soffre e non sa come uscirne. La mancanza di consapevolezza diventa quindi pericolosissima.
Ma perché i nostri giovani soffrono? Quali sono le cause ambientali che, unite alla predisposizione personale, possono scatenare la depressione?
1) Situazione socio-economica
Ogni malessere ha motivazioni personali che non si possono generalizzare. Tuttavia, si possono riconoscere piccole cause esterne che “aiutano” lo sviluppo di una depressione. Il rapporto Istat citato qui sopra sostiene che “lo status economico, il genere, l’esclusione sociale in particolare dal mercato del lavoro influiscono sul benessere psicologico”. Secondo Jean Twenge, parte della responsabilità è anche delle “preoccupazioni moderne, quali i soldi, la fama, la carriera, il successo” che finiscono per impedire alle persone di cercare sostegno. I media continuano a proporre ai giovani modelli irraggiungibili che vanno a scontrarsi con il realismo e la disillusione imposti dalla crisi, generando un diffuso senso di impotenza.
Se il sistema scolastico si fa sempre più lascivo, il mondo del lavoro diventa invece sempre più esigente e punta pochissimo sui giovani. A questo si unisce una diffusa filosofia dell’utilitarismo e della settorializzazione che alzano di continuo l’asticella delle competenze necessarie per avere successo. In tutto l’Occidente, i giovani sono più specializzati, più assertivi e “tuttavia più miserabili che mai” (Twenge). Tutti siamo consci della frettolosità e dello stress della vita del nuovo millennio, ma ci soffermiamo di rado sulle conseguenze più gravi di questa condizione.
2) Famiglia e superficialità diffusa
A questo si aggiunge un altro tipo di pressione sociale: l’aspettativa su cosa devono essere, e la conseguente discriminazione se non si rispettano certi canoni. Non a caso la percentuale di individui affetti da depressione è maggiore fra le donne (discriminazione di genere) e fra i membri di minoranze (LGBT, stranieri di seconda generazione, ecc). L’esclusione che deriva dal fare parte di queste categorie porta molti giovani a sentirsi “outsider” anche quando riescono a trovare una certa stabilità sociale ed economica. Questo tipo di pressione parte spesso dalla famiglia e il senso di inadeguatezza è sempre dietro l’angolo. Questo combacia spesso con il sintomo dei sensi di colpa eccessivi e immotivati.
Inoltre, spesso le famiglie tendono a negare l’esistenza di simili malesseri. Di conseguenza, piuttosto che portare i propri figli da uno specialista, tendono a rivolgersi al medico di base senza dare troppi dettagli. La differenza? Psicologi e psichiatri sanno quando i farmaci sono necessari e quando, invece, basta un approccio psicoterapico e comportamentale. I medici di base, invece, prescrivono spesso antidepressivi in modo sconsiderato. Gli effetti possono essere devastanti. Secondo Jean Hannah Edelstein, giornalista e scrittrice per il Guardian, la facilità con cui vengono prescritti antidepressivi e ansiolitici potrebbe essere una delle cause dell’ansia stessa.
Cosa possiamo fare?
“C’è uno spazio oscuro tra le aspettative del sogno eterno americano – essere migliori, avere di più – e la verità effettiva” dice la dottoressa Twenge “la vita è sempre un po ‘deludente. Forse i nostri antenati erano meno gravati dalla delusione perché non si aspettavano tanto. I social media hanno aumentato queste aspettative, e i giovani sono la generazione che, ovviamente, ne sta risentendo di più”.
Come singoli individui, se vediamo che una persona cara potrebbe essere affetta da depressione, possiamo starle vicini. Evitiamo di dare giudizi inutili, non bolliamo il suo malessere come una debolezza giovanile e, se possibile, cerchiamo di indirizzarla verso un aiuto professionale. Possiamo anche dare l’esempio e cercare di rendere gli ambienti in cui viviamo e lavoriamo più sereni e comunicativi.
Come famiglie, possiamo stare vicini ai nostri figli senza cadere nel cliché del genitore ossessivo e possiamo liberarci dell’idea tossica che la depressione sia un tabù o un’onta che non toccherà mai i nostri figli. Il pensiero di “cosa penseranno i vicini?” dovrebbe essere il vero tabù: il benessere dei nostri figli è più importante. Possiamo essere più aperti e tolleranti se i nostri figli non dovessero essere come ce li aspettavamo e possiamo educarli ad amare sé stessi, indipendentemente dal “successo” economico e lavorativo che raggiungeranno. Questo ovviamente non vuol dire essere eccessivamente lascivi e protettivi: troppo è uguale a niente e, oltre ad imparare a gestire i fallimenti, un figlio ha anche bisogno di imparare ad affrontare certi ostacoli con una certa indipendenza. E’ difficile trovare un equilibrio, ma è mai stato facile fare i genitori?
Infine, come comunità, possiamo premere per dei cambiamenti maggiori. Forse una riforma del mercato del lavoro è chiedere troppo, almeno per il momento (anche se sarebbe auspicabile). Tuttavia possiamo cominciare richiedendo più equità sociale ed economica e adoperarci per costruire insieme ambienti più aperti, solidali, meno alienanti e improntati al benessere psico-fisico di ogni individuo.